
Centocinquanta minuti immersi nella natura aspra e selvaggia della Sardegna, percorsa in lungo e in largo nelle ventotto settimane di riprese che sono occorse al regista Salvatore Mereu per dare corpo e vita alla terra descritta da Giuseppe Fiori nel romanzo “Sonetàula” e che andava ricostruita con amore per restituire allo spettatore tutta la forza arcaica della Sardegna a cavallo tra gli anni Trenta e Cinquanta, fatta di ovili, di paesi sperduti, di paesaggi aridi (per la città Tempio, Oristano, Bosa, Alghero; per Orgiadas, paese immaginario, Orgosolo, Oliena, Dorgali e Olzai).
La breve e dolorosa parabola di Sonetàula si compie infatti nell’arco di tredici anni, a partire dal 1937 fino al 1950.
Incontriamo Zuanne Malune appena dodicenne, fragile alberello abbarbicato alla roccia che è il padre, sottrattogli da una faida locale della quale è tenuto all’oscuro per preservare il più possibile i suoi sogni e la sua innocenza. Zuanne crede il padre al nord, al lavoro in una fabbrica, ma il nonno Cicerone Malune, splendida figura di méntore insieme con l’altro grande vecchio, tiu Giobatta Irde, nonno di Maddalena, lo strappa all’illusione mettendo brutalmente a nudo la realtà della falsa lettera scritta da Battista Murrighile, a causa della quale Egidio Malune è stato ingiustamente accusato della morte di Anania Medas, e rivelandogli che il padre è stato condannato al confino a Ustica. Tutto si fa più chiaro nella mente confusa di Zuanne, che finalmente può dare un senso ai silenzi, alle domande, alle parole che il padre gli ha rivolto prima di partire. Incomincia il suo duro apprendistato, è un servo pastore e la vita è lontano da casa, dove sono riamste le donne, la madre Rosa e la giovane Maddalena, che presto accenderà nel suo cuore un sentimento che nulla avrà più dell’amore fraterno. È vita grama, esposti al freddo e alle intemperie, dietro al gregge che va sorvegliato continuamente perché nessuno rubi i capi, come accade ai maiali custoditi dal piccolo Giuseppino Bande, che Zuanne insieme con il nonno aiuta. E l’inverno segue all’estate, se l’uno era terribile per il freddo e le piogge battenti, l’altra è inclemente per la siccità che condanna le pecore a morire sotto lo sguardo impotente dei pastori.
Gli anni si succedono con monotona crudezza, Zuanne cova dentro di sé il rancore e l’odio per chi ha fatto del male a suo padre e non si sottrae alla dura legge della faida. A un furto risponde con lo sgarrettamento di alcuni capi del gregge dei colpevoli e comincia la sua discesa all’inferno. Ignora la chiamata dei Carabinieri quando ancora potrebbe una svolta alla propria vita e preferisce la latitanza, che lo allontana inesorabilmente da Maddalena e da Giuseppino, il quale invece rimane sordo al richiamo della tradizione e tenta di costruirsi un futuro migliore lasciando la pastorizia e accettando un lavoro come lamierista.
Intanto la Sardegna è scossa dal vento della modernità, rappresentata dalle attività industriali, dal volo radente degli elicotteri che spargono le sostanze chimiche per combattere la malaria, quella malaria che ha rovinato la vita di Rosa e di tante persone, e dall’avvento dell’energia elettrica. Passa anche la guerra come un’eco lontana, che però tocca di nuovo crudelmente la vita di Zuanne; quella guerra che avrebbe potuto restituirgli il padre, liberandolo dal confino, finisce col sottrarglielo per sempre in terra d’Africa. Oramai Zuanne non ha più motivi per voltarsi indietro, i fatti criminosi si succedono l’uno all’altro fino al culmine della vendetta, l’esecuzione a sangue freddo di Murrighile. È preda completamente della “balentia” la vendetta d’onore nelle terre del Gennargentu. Sul suo capo pende una taglia che fa gola a molti, due milioni di lire, e oramai vive nel timore che qualcuno lo denunci.
Nella vana speranza di riconquistare Maddalena, ora legata a Giuseppino, Zuanne si fida di un ingegnere che gli promette una nuova vita in Toscana, ma è solo l’ennesima trappola che lo ricaccia, solo e randagio, nella macchia, fino al tragico epilogo, seguito all’ultimo struggente incontro con Maddalena, divenuta madre, alla quale offre rudemente la ricca taglia che potrebbe essere un grande aiuto per la piccola famiglia. Bello e spontaneo il gesto della mano con il quale Maddalena sembra voler allontanare materialmente la proposta di Zuanne. Così come è bello il finale, in cui il giovane bandito, dopo l’ultima tragica sparatoria, viene idealmente incontro allo spettatore e si ferma a fissarlo, quasi a chiedergli ragione di una vita negata, di un’infanzia rubata. Tanti sono i gesti, gli sguardi, i silenzi in un film dall’andamento lento e solenne, nel quale non c’è musica, ma solo una nenia di donne nel corso di una cerimonia; i dialoghi scarni sono in dialetto sardo, affidati a molti attori non professionisti, una scelta coraggiosa che ho trovato cònsona alla scabra essenzialità del romanzo da cui la vicenda è tratta, belle figure di uomini e donne asciugati e induriti, la pelle di scorza d’albero, dai travagli di una vita.
Ho letto il libro di Fiori tutto d’un fiato in due giorni, presa dalle maglie di questa trama antica, tanto distante da sembrare quasi il corale ritratto di un’altra civiltà.
“Sonetàula” è stato pubblicato nel 1962 da Canesi e l’autore, morto nel 2003, lo ha ripreso in mano nel 2000, togliendo centocinquanta pagine e traendone un “nuovo romanzo” come lui stesso ha scritto in una nota in principio all’edizione Einaudi. Il risultato è una storia prosciugata, ridotta all’essenziale.
Il titolo prende origine dal soprannome del piccolo Zuanne. (…) Non poteva averne, di paura. Una volta, sì, era bianco come il latte, nient’altro che ossa involte in pelle. Lo avevano soprannominato Sonetàula perché ogni colpo dato a lui, dicevano i compagni per ridere, faceva sonu ‘e taula, rumore di legna, come ad essere dentro una bara.(…) (pag.21)

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