La piscia della befana: vita di Giacomo Leopardi bambino
Nicola Cinquetti
Fabbri, 2007
€ 11,00
Età di lettura: dai 10 anni
Gobbo, pallido e solo
Tutti lo conoscono così.
Vispo, energico e pestifero.
Nessuno lo immagina così.
Tutti abbiamo studiato sui libri di scuola la biografia di Giacomo Leopardi e abbiamo familiarizzato con il ritratto del fanciullo legato ad anni di “studio matto e disperatissimo”.
Niente di più diverso.
Sbaragliando allegramente questo luogo comune, l’agile libro di Nicola Cinquetti ci presenta un inedito ritratto del poeta recanatese fino ai quattordici anni.
In tre brevi, ma densi, capitoli l’autore ci accompagna nel mondo infantile di Giacomo e dei suoi fratelli.
Un mondo che si apre sull’amore per la balia Maria, sul tepore delle sue carezze e sul sapore di latte dei suoi baci. Maria, la figura femminile più vicina ai piccoli Leopardi, dal momento che la severa marchesa Adelaide Antici adempie scrupolosamente ai propri doveri esteriori di madre (provvede personalmente a lavarli e vestirli, a guidare le loro preghiere, a curare le piccole ferite), ma non allatta i figli e non concede loro alcun gesto di intimità e di tenerezza, non sorride e dispensa sguardi severi, al massimo porge il dorso della mano al devoto bacio della prole, così come usa deporre un bacio sulla spalla del marito, sul tessuto della giacca, per accoglierlo dopo un’assenza.
Nei primi quattro anni di matrimonio sono nati già tre bambini: Giacomo il 29 giugno 1798, Carlo il 12 luglio 1799 e Paolina il 6 ottobre 1800. E altri sette verranno, solo due dei quali supereranno la soglia dell’infanzia.
Giacomo Taldegardo, Francesco Salesio, Saverio, Pietro sono i numerosi e pomposi nomi del primogenito, come vuole la tradizione di famiglia, ma altrettanti i nomignoli con i quali in casa è chiamato: Giacomino, Giacomuzzo, Giacomuccio, Muccio, Mucciaccio, Buccio.
Giacomo deve l’onore del primo nome al nonno paterno, quel conte Giacomo morto precocemente e di cui il figlio Monaldo conserva solo pochi ricordi.
Giacomo detesta cordialmente la minestra, soprattutto quando scotta, forse perché la madre impone loro di non lamentarsi e di offrire la sofferenza a Gesù, e nutre la viva fantasia con le terribili storie che incessantemente chiede agli adulti, storie piene di streghe, di diavoli, di fantasmi e di folletti maligni, il cui pensiero turba le sue notti e dai cui timori sa di doversi difendere da solo.
Ma tutto intorno a Muccio è materia che la fantasia trasforma e adorna di sembianze umane, di sentimenti buoni o cattivi ai quali affidarsi con fiducia o dei quali diffidare con istintivo orrore.
Giacomo cresce più esile rispetto al pur più giovane e robusto Carlo, ma ha energia da vendere. Energia che sa compitamente contenere durante la messa nella piccola chiesa di Santa Maria di Monte Morello, che sorge davanti al palazzo, dalla posizione predominante dei banchi con inciso il motto Gentis Leopardae.
Cominciano gli anni dello studio sotto la guida di don Sebastiano Sanchini e i piccoli allievi non tardano a dare soddisfazioni al precettore e al padre; Giacomo esibendo una memoria prodigiosa e un’impressionante rapidità nell’assimilare gli argomenti di studio, Carlo pur mostrando un po’ meno impegno e smalto del fratello e Paolina, emula dell’amato Muccio e facilitata nell’apprendimento da una naturale predisposizione, ma limitata dalla sua condizione di femmina (infatti per volere di Monaldo, che non ama le femine letterate, il suo programma di studi sarà meno impegnativo rispetto a quello dei fratelli).
Soppiantato dalla moglie, molto più esperta e concreta, nel ruolo di capofamiglia, il conte Monaldo si rifugia nei libri e cura personalmente il progressivo svilupparsi della biblioteca che diventerà il fulcro della cultura di Muccio. Alcuni anni più tardi, con un gesto di insospettata apertura mentale, offrirà ai concittadini l’uso della ricca biblioteca, ma i buoni recanatesi si guarderanno bene dal frequentarla. Sotto lo sguardo compiaciuto del padre ben presto Giacomo comincerà a consultare anche i libri più difficili, libri di ogni genere, eccezion fatta naturalmente per quelli proibiti, che costituiscono un piccolo ma ben protetto enfer nella biblioteca monaldiana, opportunamente isolati con una rete di ferro.
Le letture animano i giochi di Muccio. Egli non vive solo di duelli e di lotte ( nelle quali si getta con la foga di un fisico gracile, ma determinato, e senza alcuna cattiveria), di gare di corsa e di ginnastica, di sedie che si trasformano in cavalli e carri da guerra. I giochi di battaglia nascono dagli studi ed ecco Giacomo impersonare Ettore contro Carlo-Achille, o Pompeo contro lo svogliato Carlo-Cesare. “Ettore e Pompeo, non due vincitori, come ci si potrebbe aspettare, ma due sconfitti. Non è difficile però comprendere perché Giacomo simpatizzi per loro: Ettore è l’eroe amabile e giusto, che lotta per la libertà della sua terra e viene ucciso dalla slealtà del nemico e della dea sua complice; Pompeo è l’uomo che resiste al tiranno e combatte nel nome della libertà repubblicana, fino a quando non sarà ucciso a tradimento, lontano dalla patria. Ai vinti, talvolta, la storia riconosce una statura morale, una virtù, superiore a quella dei vincitori. Giacomo lo sa e sceglie pure la parte del perdente, se questa gli consente di sentirsi il più grande, il più degno di ammirazione.” (pag.37)
Quando il tempo è cattivo i giochi dei bambini irrompo negli austeri saloni del secondo piano e può accadere che dalla sottostante biblioteca il conte Monaldo batta sul soffitto con una pertica per segnalare il proprio disappunto. E poi c’è l’incanto dell’ultimo piano, l’appartamento della nonna Virginia, madre di Monaldo. L’anziana contessa attende con gioia tutti i nipoti, ma non nasconde la preferenza per Giacomo. I piccoli travolgono ogni cosa la loro passaggio, fanno qualche danno e disturbano l’anziano gentiluomo Volunnio Gentilucci, caro amico della contessa, che vorrebbe tanto sgridarli come si deve, ma non osa.
La vita infantile di Giacomo e dei fratelli si svolge quasi esclusivamente tra il palazzo, la chiesa e la tenuta di san Leopardo, ma spesso si va in visita presso le altre famiglie nobili e mentre gli adulti conversano, o più o meno piacevolmente, i bambini si riuniscono e si danno ai giochi, dei quali
Giacomo è attore principale e regista con tutti i partecipanti al suo servizio. Almeno fino al momento in cui la severa voce di Adelaide li richiama alla realtà del rientro a casa.
“Ci sono momenti di improvvisa euforia, di allegrezze pazze, nei quali vorrebbe mettersi a saltare, a rovesciare sedie, a gridare, ma non lo fa, deve contenersi. Poi succede che l’allegria si ribalta in improvvisi scoppi di rabbia, oppure in angoscia, in pianti disperati, senza che vi sia un motivo comprensibile, una ragione concreta. È come se di tanto in tanto le ombre incappucciate dei bruttacci tornassero a guastragli l’anima.” (pag.44)
I bruttacci, come li chiama Muccio, sono i frati che accompagnavano i missionari in processione, sfilando sotto le finestre del palazzo, e che lo riempivano di innominato terrore nell’infanzia con le loro cupe litanie.
Dalle pagine del libro emerge il difficile, ma inteso rapporto tra Monaldo il soverchiatore e Giacomo il prepotente, rapporto che in questi anni è ancora aperto e pacifico grazie alla netta divisone dei ruoli e al fatto che “Se il padre affida al figliolo le proprie speranze di riscatto sociale, il figlio punta gli occhi sul padre, per dare il giusto nome e il giusto peso ai propri sentimenti…” (pag.48).
Continuano intanto le due carriere parallele di Muccio, quella di intepido monello, affascinante narratore di storie, e quella di studente modello, sempre più impegnato nella composizione si opere originali e di saggi di maestria. E soprattutto impegnato in quei pubblici esami, al cospetto del padre, del precettore e dei colti recanatesi, con i quali dimostrare la propria preparazione insieme con i fratelli.
Con il crescere fisico della biblioteca di Monaldo aumenta il desiderio di conoscenza di Muccio, che ottiene il permesso di poter studiare anche il francese, impresa nella quale né il precettore, per impreparazione, né il padre, per antipatia, potranno aiutarlo. Armato solo di una grammatica e di un dizionario, Muccio otterrà i soliti, strabilianti successi.
In occasione dell’Epifania del 1810 Giacomo concepisce l’ironica lettera che rivolge alla marchesa Volunnia Roberti e che forse fu sequestrata dai genitori prima di poter essere consegnata. (pag.63)
Carissima Signora
Giacché mi trovo in viaggio volevo fare una visita a Voi e a tutti li Signori Ragazzi della Vostra Conversazione, ma la Neve mi ha rotto le Tappe e non mi posso trattenere. Ho pensato dunque di fermarmi un momento per fare la Piscia nel vostro portone, e poi tirare avanti il mio viaggio. Bensì vi mando certe bagattelle per cotesti figliuoli, acciocché siano buoni, ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro, quest’altro anno gli porterò un po’ di Merda… Voi poi Signora Carissima avvertite in tutto quest’Anno di trattare bene cotesti Signori, non solo col Caffè che già si intende, ma ancora con Pasticci, Crostate, Cialde, Cialdoni ed altri regali, e non siate stitica, e non vi fate pregare, perché chi vuole la Conversazione deve allargare la mano, e se darete un Pasticcio per sera sarete meglio lodata, e la vostra Conversazione si chiamarà la Conversazione del Pasticcio…

Il 1810 è anche l’anno in cui Muccio si dedica agli studi di filosofia e intanto prosegue la sua riuscita produzione di poemetti, che racchiude e rilega in precisi e ordinati quadernini con tanto di bei disegni. I suoi occhi soffrono per lo sforzo cui sono sottoposti, ma Giacomo allarga il suo sapere anche alle scienze naturali.
Il sipario cala sulla scena del 20 luglio 1812, giorno dell’ultimo esame scolastico di Giacomo e Carlo al cospetto del vescovo e di esaminatori appartenenti a diversi ordini religiosi, in un excursus sull’intero programma scolastico di due anni.
“L’esame si risolve, come i precedenti, in un turbinio di lodi e di congratulazioni. Ma c’è qualcosa di diverso questa sera, rispetto al passato. È nello sguardo dei religiosi, che fissano Giacomo con un senso di disagio – e di rancore – per la dolorosa percezione della propria inferiorità… d’ora in poi Giacomino camminerà da solo.” (pag.92)
Due parole sull’autore.
Nicola Cinquetti è nato a Verona nel 1965 ed è un professore di liceo che da diversi anni scrive testi per bambini.
Dic 05, 2007 @ 17:36:00
da Giuliano:
Che bello! Grazie della segnalazione
Dic 05, 2007 @ 21:14:00
Bellissima presentazione, Annarita, da voglia di andare a leggere il libro, che spero fare davvero quanto prima.
Rino, leggendo con interesse.
Dic 06, 2007 @ 03:23:00
Ma che brava che sei, Annarita, a scovare certe chicche.
Un post veramente delizioso.
H.
Dic 06, 2007 @ 09:54:00
@ Giuliano, Rino e Habanera
Grazie mille, siete molto gentili! La parte di me che non è mai cresciuta mi mantiene costantemente in curiosità e si rivela una guida indispensabile 😉
Buona giornata
Dic 06, 2007 @ 19:32:00
Il titolo è piuttosto intrigante! Bella segnalazione. Cinquetti….mica parente della Gigliola?
Un abbraccio
Dic 08, 2007 @ 11:31:00
Cuoredigiada…e se fosse parente della Gigliola non ci sarebbe poi niente di male, visto che adesso l’età per amarmi ce l’ha.
A parte l’eccellenza del post, Annarita, ma così ci hai abituati, facci un post brutto ogni tanto, così sobbalziamo dal dispiacere e si crea la suspense, a parte questo, il brano della Piscia della Befana è da mangiarsi le mani dall’ammirazione invida. Il ragazzo era così, altro che il gobbetto geniale propalato dai viriloidi carducciani alti comunque un metro e mezzo, non di più. Fornisco due informazioni, la prima è strana. Chiesero a Fanny Targioni Tozzetti perché non aveva ricambiato l’amore del Leopardi, e lei secca disse: “Perché puzzava”. Il che la dice lunga sia sull’igiene di quei tempi sia sulla Fanny: che gli dicesse di lavarsi e poi l’amasse!
La seconda è più nota: a detta di tutti Giacomo Leopardi, anche e soprattutto negli ultimi anni aveva un bellissimo sorriso. Quando lo leggo, me lo vedo sorridente, ed è così, perché Giacomo commuove, ma non rende tristi, un’altra cosa che a scuola non sono stati capaci di spiegarci.
saludos y besos
Solimano
Dic 08, 2007 @ 17:21:00
@ Giulia
È quello che ho pensato anche io leggendo il libro e ve l’ho segnalato subito 🙂
@ Cuoredigiada
Non ne ho idea, non ho trovato riferimenti in proposito 🙂
@ Solimano
Sorvolo sui complimenti, sei troppo buono… e sorvolo anche sulla risposta un po’ troppo snob della signora, che pare preferisse il più sanguigno Ranieri. Possiamo perciò dire che la nobildonna Fanny avesse la puzza sotto il naso…scherzi a parte, con la scuola tocchi un tasto dolente, perchè mai nessun professore scinde la figura di Leopoardi dalla tristezza e dal dolore e così non lo si apprezza come merita, te lo dice una “foscoliana ardente”, come mi definiva il mio professore di lettere, contenta di aver riscoperto il poeta di Recanati in tempo utile. Molto bella la notazione sul sorriso di Giacolmo 🙂
Buona domenica a tutti
Dic 28, 2007 @ 18:37:00
@ Annita
Sono andata a sbirciare nel tuo blog e ho letto, tra le altre cose, il post sul libro, stringato, coem dici ricco, ma ricco sotto altri aspetti. Bello questo ritrovarci in rete con i medesimi spunti! Buona serata, Annarita
Set 20, 2012 @ 16:58:01
il libro é di mio interesse per la tesi .
Maria Cupo
Set 22, 2012 @ 13:18:07
Ne sono contenta. In bocca al lupo per la tesi.
Annarita
Set 23, 2012 @ 17:18:52
Buonasera,
senta, dato che qui a Napoli non riesco a trovare una copia del testo e il prof. non mi risponde via mail può lei inviarmi copia o fotocopie?
Grazie .
Un carissimo Saluto dalla laureanda dell’ Orientale d Napoli
Maria Cupo.